Fredric Brown: La belva nella città (The Lenient Beast, 1956) – Trad. Paola Drummond – I Gialli del Secolo, N°308, del 9 marzo 1958

Torniamo a Fredric Brown dopo qualche tempo, questa volta per parlare non di un Mystery seppure asciutto, come era il suo stile, ma un romanzo nero, con grande tensione narrativa e uno stile inconfondibile.

La storia non nasce come i Mystery classici della Golden Age con un Prologo in cui vengono presentati i personaggi e con un certo climax in cui maturano le vicende che inevitabilmente portano alla catarsi liberatoria e al delitto, ma comincia subito col delitto: preparazione non ve n’è proprio.

La storia si svolge a Tucson, dove lo stesso Brown visse nei suoi ultimi anni di vita.

John Medley, che vive di compravendita, trova una bella mattina un cadavere al centro del suo giardino. Si accerta che sia morto, quindi va dalla signora Armstrong, sua vicina, e le chiede di poter usare il suo telefono (giacchè lui non dispone della linea telefonica) per chiamare la polizia: sa bene che non bisogna spostare il corpo del reato prima che arrivi la polizia e quindi non lo fa. Ma per quel che ha visto – il cadavere è disteso supino,  il capo è girato in una posa innaturale a guardare l’orizzonte, gli occhi sono fissi e vitrei, battito non ve n’è e il corpo gli appare già freddo – quel tale è proprio stecchito.

La polizia arriva e ben presto conosce i due poliziotti che dirigono le operazioni : Frank e Ramos detto Il Rosso. I due lo interrogano sul più e sul meno. John si dimostra il più collaborativo possibile e offre persino da bere ai due, e si mette a disposizione per il prosieguo delle indagini. L’uomo è stato ucciso con un colpo di pistola alla nuca, con un’arma di piccolo calibro, una ventidue probabilmente. I due poliziotti gli chiedono se possieda una pistola, e John ammette di avere una Smith & Wesson calibro 32 ma che non ha sparato da cinque anni, cosa che i due verificano guardando nella canna della pistola: da quando ha ucciso il suo cane che era stato avvelenato: a ricordarlo c’è una pietra bianca sulla sua tomba, nel suo giardino.

I due se ne vanno, ma per quanto John si sia dimostrato e abbia tentato di essere compiacente, i due ne riportano un’impressione non proprio rassicurante.

Potremmo dire fine primo atto.

Il secondo inizia con John che rientra a casa, sfinito dalla tensione di aver sostenuto l’interrogatorio e di non essersi tradito: infatti è lui che ha ucciso quel tale trovato al centro del suo giardino. Ripercorre tutte le tappe, mentalmente fa un’analisi degli avvenimenti, ripensa a ciò che ha fatto per depistare le indagini, e conclude con il fatto che non riusciranno mai ad incastrarlo. Tuttavia è ossessionato dal fatto che sia stato Dio a volere ciò che ha fatto e prega perché non sia di nuovo costretto a fare quello che ha compiuto, e nello stesso tempo non capisce perché abbia messo il cadavere al centro del suo giardino invece che disfarsene in altro modo: il suo piano iniziale prevedeva infatti di lasciarlo nei pressi dei binari, ben lontano da casa sua. Perché lo ha messo così vicino a casa sua?

In Medley agiscono due identità: una ritiene di stare solo compiendo al volontà di Dio, l’altra – che agisce ne suo subcosciente – vorrebbe che venisse preso e confessando finisse la sua sofferenza.

Frank è convinto sempre più, man mano che il tempo passa, della sua colpevolezza; il suo compagno, l’altro poliziotto Ramos, no. E anche il loro capitano, ritiene Medley una brava persona. John non ha vizi. Beve solo sherry, legge e sente musica con un vecchio grammofono. In quello è uguale a Frank Amos, il poliziotto che ha capito la sua colpevolezza.

Ma perché John ha ucciso Kurt Stiffler ? E chi era Kurt Stiffler

Più gli inquirenti cercano legami fra i due, carnefice e vittima, più non trovano nulla: è vero che l’assassinio di Kurt è stato compiuto con grande freddezza ed accortezza e per di più è stato premeditato, e non ha lasciato prove,  ma  è anche vero, che, in fondo, Kurt era un uomo distrutto, sia nel fisico (non aveva molto tempo da vivere) sia nell’animo (era stato il responsabile della morte della sua famiglia e di un altro guidatore, per una sua disattenzione nella guida e le spese sopportate dalla giustizia civile per risarcire la famiglia dell’altro guidatore, come lui alticcio, pur ritenuto innocente dalla giustizia penale, lo avevano ridotto quasi in miseria. Per cui non sarebbe stato neanche tanto impossibile il suicidio, se la ferita mortale fosse stata inferta con un’angolazione meno strana. Ma qual’è il motivo dell’uccisione di Kurtt?

Più si scaverà, più non si troverà nulla. Anche perchè John ha curato di non parlare mai del suo passato: figura come scapolo, ma nessuno sa che è stato sposato e che ha perso la moglie in un tremendo incidente automobilistico. E nessuno conosce, tranne lui, il vero epilogo di quell’incidente: nessuno sa che dopo il tremendo impatto contro un albero, lui non si era fatto nulla, sbalzato fuori, ma la moglie giovane e bellissima era rtimasta sfigurata con la faccia ridotta ad una poltiglia sanguinolenta, un occhio sbalzato via dall’orbita, un braccio quasi completamente maciullato; e soprattutto nessuno sa che per far tacere la moglie che urlava, per far tacere quell’orrore, l’aveva uccisa  colpendola alla testa con un grosso sasso.

Medley sfuggirà alla giustizia terrena. Ma non a se stesso in un finale molto melanconico, che coinvolgerà non solo Medley, punito e finalmente felice di aver pagato il suo fio, ma anche Frank, per vicende sue famigliari, mentre l’altro compagno, Ramos (la vicenda si svolge a Tucson, Nuovo Messico), si sposerà con la figlia della vicina di casa di Medley.

Il romanzo è un romanzo nero atipico. A metà tra il Thriller e il Procedural, il romanzo viene svolto secondo un originalissimo iter narrativo, affidato a ciascun personaggio del dramma : John, Frank, Ramos, la moglie di Frank, il capitano Walter Pettijohn, Alice Ramos moglie di Frank. In sostanza, a ciascuno di essi, viene conformato un intero capitolo della storia: in ciascuno, il personaggio prescelto, parla in prima persona. Questo procedimento narrativo è diverso dalla narrazione in terza persona che pone il narratore fuori dal contesto narrativo: qui ciascun personaggio è narratore per la parte di storia a lui affidata perchè da lui vista secondo il suo occhio. Ne consegue che il lettore è maggiormente preso dalla tensione narrativa in quanto il procedimento della narrazione in prima persona non solo favorisce l’identificazione tra lettore e narratore, ma al tempo stesso fà sì che il racconto diventi una confessione continua.

Il merito di Brown non è solo quello di aver scandagliato la vicenda, ma anche di aver esaminato con crudezza la vita privata degli altri partecipanti al dramma, cioè i due poliziotti e le loro famiglie. Ne esce un quado tristissimo, in cui ad avere la peggio sono i due antagonisti, John e Frank: il primo contrapposto non solo a Frank ma anche a se stesso, alla propria coscienza; il secondo a John e a sua moglie, alcoolista, sposata solo due anni prima: matrimonio finito prima di incominciare, per l’ambizione della moglie di Frank, Alice, e i sostanza per un eccesso di precipitazione dei due, che si sono sposati basandosi solo sul colpo di fulmine, senza essersi conosciuti prima.

Il romanzo ha un’atmosfera molto triste, a cui sembra sfuggire il secondo poliziotto, Fern Cahan, detto Ramos. Perchè a lui è riservato un finale lieto con il matrimonio: ma non è detto, sembra dire Brown, perchè anche a lui potrebbe andare male il matrimonio, basato solo su un colpo di fulmine.

Frank e John sono accomunati dallo stesso destino: aver troppo amato, ed esser rimasti prigionieri del loro stesso amore. Il personaggio di Alice, che sembrerebbe fuori luogo, in realtà ha la sua importanza perchè un suo giudizio “..forse quel John Medley lo ha ucciso per toglierlo dalla sua infelicità” fornirà la base per interpretare l’origine del delitto, che accomuna Kurt, il cane di John, la moglie di John e non si sa se altre persone.

John  in sostanza è un serial killer che uccide per dare pace a chi non l’ha: un alleviatore di sofferenze, che uccide con l’eutanasia, che per mettere a tacere la propria coscienza (la consapevolezza di aver ucciso la moglie non tanto per darle pace quanto per appagare il suo egoismo di trovarsi a gestire una situazione irreparabilmente compromessa non sapenso come uscirne) si è convinto che sia Dio a chiedergli di intervenire donando pace a chi non la possiede.

Per quanto non si veda a prima vista, il personaggio più positivo di questa storia è proprio Alice, che è alcoolista per disperazione, perchè ha perso un figlio che avrebbe portuto cambiare il menage familiare con il suo marito messicano Frank, che diversamente dal cliché del messicano tipo (crudo e violento) in realtà è una persona dolce e buona, che però è troppo chiuso in se stesso, e che ha fatto l’unico errore di sposare la moglie senza averla prima conosciuta: la vera mancata conoscenza, che è incomunicabilità tra i due sposi, si tramuta nel progressivo allontanamento dei due: i due potrebbero dormire in letti giacchè non hanno più rapporti intimi, Alice affoga le proprie disillusioni nell’alcool, Frank nel proprio lavoro, non facendo null’altro se non quello e non preoccupandosi di cercare di capire la vera causa della dipendenza dall’alcool della moglie , perchè in sostanza non l’ha mai capita. Lei sa di essere amata, ma si accorge di non riuscire mai più ad amarlo (è la cosa più triste) e quindi beve: è il vecchio dilemma di Costant. Tuttavia diversamente da John e Frank (prigionieri del proprio egoismo e che a modo loro reagiscono in maniera sbagliata alla realtà che li circonda, non avendo analizzato a fondo se stessi), Alice, dopo un’attenta analisi, decide di rompere: il suo amore per Clyde (seppure anche lui si manifesti un personaggio egoista, preso solo dal timore che Frank, che è un poliziotto, possa risalire alla sua identità e quindi prendersela con lui) la porterà a decidere di abbandonare per sempre Frank, dandogli una seconda possibilità di scelta.

Se vogliamo intender bene, il romanzo nero di Brown diventa quindi un romanzo sui sentimenti, un Hard boiled cupo, che in fondo però rivela una luce in fondo al tunnel, là dove, secondo la morale comune, non dovrebbe esserci: infatti la fedifraga, “la puttana”, in realtà è il personaggio più vero della storia, l’unico positivo che decide di romper l’infernale ingranaggio, assumendosi le proprie responsabilità.

Brown in un certo istante si manifesta anche colto riutilizzatore di escamotages: quando, contemplando la possibilità che Kurt stranamente sia sia potuto uccidere, sparandosi alla nuca, Brown cita il suicidio di chi per far sembrare invece il suicidio un omicidio, aveva legato la pistola alle zampe di un corvo, affinchè dopo essersi sparato, il corvo avrebbe portato la pistola altrove: in sostanza cita il romanzo di Alexis Gensoul “Gribouille est mort”, già in questo blog analizzato anni fa.

Brown lettore di romanzi francesi? Un’altra domanda a cui bisognerà rispondere: come e dove aveva conosciuto il romanzo di Gensoul, mai pubblicato in America?

Bellissimo e intenso romanzo di fredric Brown, che mantiene inalterata tutta la sua forza (e la sua tristezza di fondo) anche nella traduzione tagliata, pubblicata ne I Gialli del Secolo.

Pietro De Palma

Fredric Brown: La belva nella città (The Lenient Beast, 1956) – Trad. Paola Drummond – I Gialli del Secolo, N°308, del 9 marzo 1958ultima modifica: 2015-03-02T08:22:32+01:00da lo11210scriba
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