Anthony Berkeley : Delitto a porte chiuse (The Layton Court Mystery, 1925) – trad. Mauro Boncompagni – I Classici del G.M. N° 950 del 2003 (pubblicato con stesso traduttore da Polillo, ne I Bassotti, nel 2012, con il titolo “Uno sparo in biblioteca”)

L’ingresso trionfale di Anthony Berkeley sulla scena internazionale: questo è The Layton Court Mystery, un romanzo del 1926, in cui fa la propria comparsa quello che sarà uno dei più famosi detective della carta di tutti i tempi: Roger Sheringham.

Quando Berkeley lo creò, sicuramente guardò a Conan Doyle, il prototipo base, l’archetipo vorrei dire: Sheringham ha il tipico abbigliamento britannico, e immancabile una pipa, molto simile a quella di S.H. Inoltre per la sua prima avventura, pone vicino al suo personaggio principale, che fa nella vita il romanziere di libri polizieschi, genere che lui disdegna personalmente ma che in definitiva gli da da vivere (è un tipo snob sicuramente), un altro personaggio Alec Grierson, che gli fa da “dottor Watson”. Come dice Mauro, “il clichè era quello”. Però lui (Berkeley) va oltre: Grierson è impacciato, è goffo, irrinunciabilmente cavaliere, per lui le donne soprattutto se di una certa classe sociale non possono essere assassine semmai vittime. Insomma è la fotocopia del Cap. Hastings di Agatha Christie. Il connubio Berkeley – Christie è uno da osservare ben bene, perchè entrambi si stimavano reciprocamente: lui deve aver guardato ad Hastings, lei ammirava Berkeley e il suo Sheringham.

Questo loro reciproco apprezzamento vedremo nel prosieguo che produrrà un altro sostanziale prodotto in questo primo romanzo di Berkeley.

Roger Sheringham, scrittore di romanzi, e il suo amico Alec Grierson, sono ospiti da alcuni giorni di Victor Stanhope, un ricco possidente, benvoluto da tutti, che offre sigari di marca e vini prelibati ad ogni piè e si fa notare per la sua simpatia. Nonostante questo, è trovato morto nella biblioteca di casa sua, con porta e finestre chiuse dall’interno. Il messaggio lasciato è inequivocabile. Tutto farebbe pensare in effetti ad un suicidio. E a tutti, compresa la polizia. L’unico a non esser convinto della dinamica dei fatti è proprio Roger, che comincia ad investigare, in coppia con l’amico Alec Grierson, riluttante eppure convinto a fargli da spalla, come un Watson di un redivivo S.H.

Quello che non comprende è innanzitutto la modalità di suicidio: perchè spararsi in fronte quando è più semplice spararsi alla tempia? Inoltre nota sulla mensola del camino tutta una serie di impronte che fanno pensare che lì ci fosse dell’altro oltre un vaso, e dei frammenti lo fanno convincere saull’esistenza di un secondo vaso, i cui frammenti però (tranne uno) sono scomparsi. Inoltre molto sospetti sono sia le reazioni della Signora Plant, altra ospite e amica di lady Stanhope, aristocratica, cognata del possidente, della stessa Lady Stanhope e del Maggiore Jefferson, il segretario della vittima: se la cognata non sembra per nulla addolorata, gli altri due sono stati sorpresi da Roger a trafficare intorno ad una cassaforte nella biblioteca: la donna ha convinto temporaneamente gli astanti, che la ragione per cui era impaziente di aprire la cassaforte è che ci fossero là dentro i suoi gioielli. Le reazioni successive più distese, lo convincono che qualcuno – probabilmente l’assassino – dopo aver ucciso la vittima deve aver avvisato i due di quello che aveva trovato e fatto sparire. Sono pur sempre congetture, ma intanto Roger ha risolto come l’assassino è potuto uscire dalla sala: dopo aver verificato l’inesistenza di porte ed uscite segrete, capisce che si è servito di un trucchetto legato all’apertura della finestra che da sul giardino. Nell’aiuola sottostante nota delle impronte che sembrano dirigersi verso la stanza e non fuori. Anche questo viene risolto: con un’abile ragionamento sulla profondità delle orme dei tacchi e della suola, Roger inquadra la situazione com’è stata realizzata: l’assassino è saltato dal davanzale all’indietro, simulando un’andatura verso la finestra anzichè una fuga. Quando però in seguito tornano indietro, trovano le impronte cancellate.

Roger si convince della colpevolezza del magg. Jefferson e che la signora Plant gli ha nascosto parecchio, quando trova sul divano della biblioteca, tra i cuscini, un fazzoletto appallottolato umido, ma profumato di gelsomino – il profumo della signora Plant – e delle tracce di cipria sul bracciolo.

Dopo un interludio nel quale Roger è convinto a sospettare di un certo Prince, che Stanhope temeva e di cui era invero terrorizzato, ghiacchè ha trovato nella discarica dell’immondizia della villa un foglietto bagnato e puzzolente in cui legge di questo Prince. Le successive indagini loi porteranno ad un campo, dove pascola un bizzoso toro: è lui Prince. Dopo una tragicomica fuga, ecco ricominciare le indagini questa volta intorno alla figura della vittima, che riveleranno essere nient’affatto una brava persona come si pensava ma un losco ricattatore, che ricattava sia la signora Plant, sia il maggiore Jefferson suo segretario, persino il suo chaffeur, ex pugile, lady Stanhope e la signora Shannon, madre di un’altra ospite della villa andata via la mattina della tragedia. Tuti sono sospettabili a questo punto. e non solo il magg. Jefferson. Dopo tanti tentativi e infruttuose ricostruzioni, Sheringham rivelerà al suo poco convinto Watson, il nome dell’assassino, riservandosi purtuttavia di non denunciarne la colpevolezza alla polizia, dato che la morte del ricattatore si sarebbe rivelata come la liberazione per tutti gli altri coinvolti nella vicenda.

L’assassino non è estemporaneo, ma è sempre presente nella storia, dall’inizio alla fine: partecipa all’azione, cercando in tutti i modi non di depistare, ma di mettere in confusione le asserzioni di Sheringham. Il suo scopo non è quello tanto di stornare i sospetti da sé, quando di impedire a Sheringham di accusare altri, di accusare un innocente. Perché lui è quello: un innocente che è intervenuto per difendere una donna, per evitare che un ricatto si trasformasse in un dramma, e aggredendo Stanhope per sottrargli le prove, è stato sparato e per legittima difesa ha ucciso. E poi ha inscenato tutto, rientrando da una finestra. E’ solo per questo che Sheringham non lo denuncia. Anzi, quando quello tradendo la sua vera natura, vorrebbe consegnarsi alla polizia, è lui, Sheringham a rimproverargli  il fatto di essere troppo convenzionale.

Inizio col dire che questa è una pietra miliare della letteratura poliziesca: anche Berkeley si presenta quale sperimentatore, in un periodo, gli anni venti, in cui c’erano le premesse perchè il genere giallo che allora era in gran voga, fosse girato e rigirato e producesse i suoi migliori frutti, e in cui gli sperimentatori (Agatha Christie, Philip MacDonald) sperimentassero una serie di contorsioni del genere poliziesco, sfatando dei miti. Berkeley invero, si presenterà proprio come sperimentatore nella sua prefazione a The Second Shot, del 1930, quando inquadrerà il futuro del genere giallo in una evoluzione da whodunnit puro a howdunnit in sostanza, puntando l’attenzione sul genere sofisticato: spostando cioè l’attenzione dalla trama ai singoli personaggi, abbandonando il puzzle di tipo matematico e lavorando ad un tipo di romanzo più di tipo psicologico. Non chi ha ucciso X nel bagno ma come è accaduto che X fosse ucciso  nel bagno.

Ma se Berkeley si presenta quale sperimentatore, facendo riferimento al romanzo che gli aveva dato il successo, cioè The Poisoned Chocolates Case,  in realtà, la sperimentazione è già attuata ed è al massimo grado, in questo suo primo esordio: per certi versi, l’idea base della soluzione, che è inaspettata e lascia di stucco – semmai qualche idea peregrina era pure venuta, ma no, non poteva essere! E invece sìstravolse uno degli ultimi capisaldi del romanzo poliziesco: Zangwill nel 1896 aveva distrutto la fiducia del lettore nell’imparzialità della polizia, Agatha Christie e Berkeley nel 1926 distrussero gli altri due possibili capisaldi: il narratore, che dovrebbe essere anche lui imparziale; e un altro soggetto inquirente, quando presente. Invero già qualche avvisaglia si potrebbe averla leggendo le prime pagine, quando Sheringham si dilunga nel rapporto delle figure che intervengono in un romanzo poliziesco. Però, devo dire che mai prima d’ora, avrei pensato di imbattermi in una situazione del genere, tanto più che l’assassino è un soggetto che normalmente, nei romanzi del periodo, e talora anche dopo, mai sarebbe dovuto esserlo.

Ecco il motivo per cui questo romanzo è un gioiello, e bene ha fatto Polillo, qualche anno fa, a riproporre la traduzione di Mauro in un volume della sua beneamata collana de I Bassotti.

E’ tanto interessante anche perchè il personaggio è scanzonato. Talora i ragionamenti possono essere anche ingenui o comunque sorpassati dai romanzi posteriori: dibattere sul perchè la vittima presenti un foro sulla fronte e non sulla tempia è paradossale in un contesto in cui l’ispettore di polizia l’accetti placidamente e non si ponga il quesito che ognuno di noi si porrebbe. Oppure rammento dei particolari troppo evidenti per non esser stati esaminato da Berkeley: come fa nessuno ad aver sentito, non uno ma due spari di un revolver (una pistola a tamburo) nel bel mezzo di una notte? Il bello è che questo bug non viene neanche accennato nel corso del romanzo. Nessuno ci pensa. Nemmeno Berkeley stesso. Io sì però (Berkeley non me ne voglia!)

C’è un’atmosfera spiritosa e mai pesante. C’è ironia, sarcasmo, talora anche un accenno patetico, quando Sheringham viene a sapere di come la signora Plant per ricavare i soldi per il ricatto non avendoli, sia stata consigliata in sostanza dal ricattatore, di prostituirsi: lui le avrebbe presentato chi avrebbe ricompensato i suoi favori. In un periodo in cui la donna è ancora una vittima, e non un assassino.  Del resto questo è il convincimento di Alec Grierson, il Watson di Sheringham, che laddove lui additi come possibile complice una donna, Grierson immediatamente la salva, non ammettendo che una povera innocente esponente del gentil sesso possa essere un’assassina.

Il tono diventa anche farsesco, e ricorda molto ( a me ha ricordato almeno) il Fra Diavolo con Oliver Hardy e Stan Laurel, quando i due malcapitati vengono rincorsi da un toro: così Alec e Sheringham rincorsi, anzi caricati da Prince (e Berkeley calcola anche l’arrivo alla staccionata e l’ordine di arrivo: primo Alec, secondo Roger, terzo il toro, cioè dicendo che il sedere di Roger Sheringham aveva corso il pericolo di essere incornato). Però tutto questo insieme di atmosfere, di indizi, di situazioni paradossali (i due immersi in un immondezzaio a cercare le carte dei cestini della casa), non inficia la bontà delle idee, delle soluzioni: a parte quella finale che sconvolge il lettore, che mai si sarebbe aspettato (o quasi) quella fine (e Sheringham dimostra come sia un investigatore dilettante, innamorato nello scoprire l’assassino, e non invece nel consegnarlo alla polizia: il divertimento della logica opposto al rigore etico del male che pur sempre debba essere perseguito, anche quando sia stato rivolto a sopprimere un delinquente).

Anche la soluzione della Camera Chiusa è altamente originale. Tanto originale da aver a parere mio influenzato pesantemente l’escamotage inserito da Agatha Christie in Dead Man’s Mirror, racconto che è del 1936: quando metti in tensione il sistema di bloccaggio di una finestra,  quando il fermo trova il suo alloggio, la finestra si blocca e la maniglia ruota. Più o meno questo. Ma strano è che la stessa idea si trovi prima in Berkeley, poi in Christie.

Martin Edwards ha commentato quando gliel’ho accennato: Very interesting as always.

Ancora, c’è anche qui, ed è la prima volta, prima che de “Il caso dei cioccolatini avvelenati”, anche una specie di soluzione multipla: Berkeley sperimenta la possibilità, cioè, di partire dalla medesima base indiziaria, ed arrivare a persone completamente differenti: prima prende a colpevole il maggiore Jefferson, poi, applicando la stessa metodologia, individua il vero assassino.

E individuandolo, distrugge il mito dell’investigatore di Conan Doyle, utilizzando un suo celebre aforisma, in sostanza: “Una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità”. Perchè in questo caso l’improbabile concorda con l’individuazione dell’assassino. Solo che così facendo Barkeley, distrugge una delle facce leggendarie del mito di S.H. E così facendo, non potendo distruggere il detective, ne distrugge l’umanizzazione, creando il superdetective, che sarà il protagonista dei successivi anni.

Se non avete capito chi possa essere l’assassino, non dovete fare altro che leggere il romanzo ed inchinarvi al cospetto di uno dei più grandi: Anthony Berkeley Cox.

Pietro De Palma

Anthony Berkeley : Delitto a porte chiuse (The Layton Court Mystery, 1925) – trad. Mauro Boncompagni – I Classici del G.M. N° 950 del 2003 (pubblicato con stesso traduttore da Polillo, ne I Bassotti, nel 2012, con il titolo “Uno sparo in biblioteca”)ultima modifica: 2017-11-26T00:11:35+01:00da lo11210scriba
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