Un romanzo unico, uno dei migliori cento gialli di sempre.

 

Nicholas Blake – La Belva deve morire (The Beast Must Die, 1938) – trad. Giuseppina Caricchio – I Classici del Giallo Mondadori N. 582 del 1989

 

$(KGrHqNHJBEE+P7UkSqlBQR1ezt+1!~~60_35.JPGHo deciso di uccidere un uomo. Non so chi sia nè dove viva, non ho nessuna idea di che tipo sia. Ma lo troverò e lo ucciderò.

Così, con un incipit di eccezionale drammaticità, comincia uno dei più straordinari romanzi polizieschi che mai siano stati scritti, di Nicholas Blake.

Chi è a conoscenza che uno dei più grandi scrittori britannici di polizieschi, Nicholas Blake, era in realtà Cecil Day-Lewis, grandissimo poeta del XX secolo inglese, insignito dell’ambitissimo titolo di “laureate poet”, seppure solo 4 anni prima della sua morte?

Cecil Day-Lewis nacque nel 1904 in Irlanda. Alla morte della moglie avvenuto quando il piccolo aveva due anni, il padre di Cecil, il reverendo Lewis, col figlioletto, si trasferì a Londra. Qui Cecil frequentò le migliori scuole, laureandosi nel 1927 presso il College Wadham di Oxford. E ad Oxford insegnò dopo la laurea. Già nel 1925 era entrato a far parte di un gruppo di poeti , l’Auden Group, fondato nell’Università di Oxford intorno alla figura carismatica di Wystan Hugh Auden, che aveva raccolto attorno a sé i suoi più brillanti allievi: Cecil Day-Lewis, Christopher Isherwood Louis MacNeice e Stephen Spender. E’ da dire tuttavia che questo appellativo fu un’invenzione giornalistica, giustificata dal fatto che tutti questi poeti avevano un denominatore comune, ispirandosi ad Auden, e politicamente erano di sinistra.

Lewis gravitò sempre negli ambienti universitari, insegnando non solo ad Oxford ma anche a Cambridge, e in età avanzata (quando fu conosciuto non solo in quanto scrittore ma anche traduttore, da Virgilio soprattutto) anche ad Harvard, e legò la sua fama a due sue propensioni: alla poesia (diventò nel 1968 “Poet Laureate of the United Kingdom”), e al romanzo poliziesco, di cui fu uno dei principali esponenti con lo pseudonimo di Nicholas Blake (sicuramente ispirandosi a William Blake).

Esordì con tale pseudonimo nel 1935 con A Question of Proof, e continuò sino al 1968, sfornando complessivamente 20 romanzi. Morì nel 1972.

Il suo nome di romanziere è legato soprattutto a due titoli: Thou Shell of Death e The Beast Must Die

Nel primo dei  20 romanzi scritti, A Question of Proof , “Questione di Prove”, fece esordire il suo personaggio fisso, Nigel Strangeways, modellandolo sulla figura di  Wystan Hugh Auden, e sulle sue stravaganze: non a caso, tradotto in italiano, potrebbe chiamarsi “Nigel, dai modi strani”. Tuttavia, a partire dal suo secondo romanzo, Thou Shell of Death, “Quando l’amore uccide”, il personaggio cominciò a mutare i suoi modi, divenendo sempre più posato e normale. Non in tutti i 20 romanzi, tuttavia, apparve Strangeways: infatti, in A Tangled Web (Il dilemma di Daisy Bland), Penknife In My Heart (La mia morte per la tua), The Deadly Joker, The Private Wound (L’angelo della morte), esso non c’è.

The Beast Must Die, pubblicato nel 1938, è uno dei capolavori, se non Il Capolavoro assoluto di Blake, non a caso inserito nei 100 migliori gialli di sempre.

Il romanzo è estremamente interessante per due motivi: una prima parte, dominata dalla prima persona; seconda, terza e quarta parte in cui si parla in terza. Il motivo è chiarissimo, una volta che comincia la narrazione: un padre, Frank Cairnes, scrittore di romanzi polizieschi, anche molto famoso sotto lo pseudonimo di Frank Lane, ha perso in modo tragico il suo unico figlio: Martie, un bambino di 8 anni, è stato travolto da un’auto pirata sulla strada, uccidendolo sul colpo e trascinandolo per molti metri appresso. Per Frank Martie era anche l’ultimo filo che condivideva col ricordo della moglie morta: così la morte di Martie diventa per Frank doppiamente triste, e l’unico motivo della vita dello scrittore, non essendo la polizia nonostante gli sforzi riuscita a pervenire a qualche risultato, diventa fare giustizia, o meglio..farsi giustizia. In altre parole per Frank l’unica ragione di vita diventa trovare l’assassino del figlio e ucciderlo. L’intendimento, espresso nell’incipit succitatodel romanzo, permea tutta la prima parte, che non è altro che una confessione, in forma di monologo (che Frank appunta nel diario), dei suoi propositi di vendetta omicida, per la morte del figlio, rimasta senza giustizia.

In verità Frank pare che abbia maggior fortuna della polizia, perché, partendo dal fatto che l’auto dell’assassino dopo l’investimento avrebbe dovuto recare palesi segni della morte del bambino (ammaccature e sangue) e venendo a sapere da un passante che tempo prima (proprio il giorno dell’investimento) qualcuno era piombato a tutta velocità in una specie di pantano formatosi sulla strada, dal fatto che nel posto affianco al guidatore era stata riconosciuta una starlette, che recitava in film sexy, egli riesce a risalire all’identità del guidatore dell’auto pirata: George Rattery, proprietario di un’autorimessa, dove peraltro avrebbe potuto riparare del tutto indisturbato i segni dell’investimento riportati dalla sua automobile.

Facendo colpo sulla ragazza, Lena Lawson, Frank riesce a costruire una storia con lei, e quindi ad introdursi nella casa di Rattery, che di Lena è cognato (ma è stato anche amante): una casa dominata dalla figura ripugnante di Rattery, vessatore del figlio Philip e della moglie Violet, e scusato invece dall’autoritaria Ethel Rattery, sua madre. In breve, pur mal sopportato da George, Frank riesce poco alla volta a sottrargli l’attenzione di Philip; inoltre, il diario registra, giorno dopo giorno, i progressi acquisiti da George, non solo nell’individuazione dell’assassino del figlio e del testimone reticente che non ha detto nulla di quanto accaduto (Lena), ma anche dei suoi propositi di vendetta.

La prima parte termina laddove questi progetti sembrano concretizzarsi, dopo un tentativo andato male in una cava, sul piccolo yacht di Frank, laddove egli cercherà di uccidere George. Comincia così la seconda parte, dominata dalla terza persona singolare, una descrizione impersonale in cui Frank non è il personaggio principale, ma uno di quelli sulla scena, in cui il tentativo di Frank fallisce, e in cui tuttavia maturano le premesse perchè comunque George Rattery muoia avvelenato. La terza parte parla della sua morte e dell’indagine, mentre la quarta è riservata all’individuazione del vero colpevole. 

Il motivo anche qui è chiarissimo: mentre prima George ha dominato l’azione e la narrazione con i suoi tentativi di approccio e i suoi desideri di vendetta, nel momento in cui questi tentativi vengono esplicitati e non sortiscono alcun rusltato, ma poi lo stesso Rattery comunque muore assassinato per una dose massiccia di stricnina, che qualcuno ha sottratto dal garage, dove era lì custodito per essere utilizzato nella disinfestazone dei topi presenti nella villa, è evidente che Felix, laddove non lo si consideri un assassino che ha denunciato i suoi propositi abbastanza maldestramente in un diario personale, è stato individuato come ideale capro espiatorio da chi, pervenuto in possesso delle informazioni contenute nel diario, e vero assassino di George, lo voglia consegnare agli organi inquirenti, togliendosi da qualsiasi impaccio. Nella terza parte entrerà in scena Nigel Strangeways, chiamato in causa proprio da Frank, perché lo aiuti a provare la sua innocenza, giacchè mai un assassino scriverebbe un diario in cui parlasse dei propositi di un omicidio, se non fosse solo un modo per darsi forza, all’infuori del vero proposito di qualcuno di uccidere Rattery e di addebitare a Frank la colpa di tutto. Quale assassino sarebbe così pazzo da confessare di stare per uccidere un uomo, facendo in modo poi che egli possa impadronirsi del diario e sapere di stare per essere ucciso?

Brutta gatta da pelare per Nigel, invero !!! Infatti, se è vero che di assassini probabili, casa Rattery sembra esser piena (dal figlio vessato, alla moglie dominata e tradita, dalla ex amante che non vorrebbe che rivelasse la loro storia a Felix, al socio di Rattery, James Harrison Carfax, che avrebbe potuto vendicarsi del tradimento della moglie Rhoda, altra amante di George, fino alla madre Ethel, ossessionata dal fantasma della rispettabilità del buon nome della famiglia, che avrebbe potuto uccidere il figlio adultero a tutela dell’onore violato), è anche vero che il diario fornisce a Blount, Ispettore Capo di Scotland Yard, un assassino bello pronto.

La matassa verrà districata a dovere, solo dopo aver analizzato gli alibi e soprattutto dopo che Nigel sarà riuscito a ricostruire psicologicamente le mosse dell’assassino, partendo da una serie di indizi non inquadrati perfettamente dal pur abile interlocutore nella polizia. Riuscirà a far capitolare l’assassino (un assassino sentimentale), solo dopo che un innocente verrà coinvolto al suo posto.

La conclusione, amara e tragica, vedrà Nigel interdetto sulla possibilità di lasciare libero o consegnare alla polizia l’assassino di un essere riprovevole, fra l’altro a sua volta assassino di un bambino.

Come abbiamo detto precedentemente la divisione del romanzo in quattro parti, di cui la prima affidata ad una narrazione in prima persona e le altre tre in terza persona, incide profondamente sulla lettura: nella prima parte, in cui l’emozione per la morte tragica di un bambino è condotta magnificamente fino al climax finale, ed è dominata dalla prima persona, che porta il lettore ad identificarsi con la vicenda tragica di un padre che ha perso il suo unico figlio a cui era legato fortemente, la sensibilità letteraria di Blake giunge a vette inusitate di drammaticità e ad accenni poetici in cui chiaramente viene rivisitata con icasticità commovente la poetica di Catullo, di Virgilio e di Orazio, quando non si serve di versi di poeti, più a lui vicini: ad esempio i sette versi tratti da “Toys”

He had put, within his reach,

A box of counters and a red-vein’d stone,

A piece of glass abraded by the beach

And six or seven shells,

A bottle with bluebells

And two French copper coins, ranged there with careful art,

To comfort his sad heart), poesia inserita nella raccolta The Victories of Love, and Other Poems di Coventry Patmore, poeta ottocentesco della corrente dei Preraffaelliti . Qui, la materia narrativa viene trattata con tale sapienza di mezzi espressivi e toccando le corde del cuore di qualsiasi lettore, da diventare quasi un caso a sé nella fiction poliziesca; e pur legando tale espressività ad un fine che verrà esplicitato solo successivamente, Blake trascende la letteratura di genere assurgendo a vette di pura arte (in qualche modo giungendo agli stessi esiti del Carr di She Died a Lady). Devo dire in tutta sincerità che il meccanismo con cui Blake cerca di entrare nell’animo del lettore, facendolo partecipe della vicenda tragica di un padre che ha perso il suo unico figlio, mi ha commosso profondamente avendo anch’io un figlio della stessa età di quello descritto nel romanzo e per di più figlio unico (ritengo che sia l’unica volta in cui un romanzo poliziesco mi abbia colpito tanto profondamente!).

A partire dalla seconda parte, in cui si perde invece l’unicità dell’identificazione del lettore nella persona del narratore (espediente già utilizzato da Agatha Christie) per utilizzare la narrazione in terza, che pur perdendo in drammaticità e forza espressiva, Nicholas Blake descrive l’ambiente, le personalità dei soggetti del dramma e gli eventi connessi, con sufficiente distacco,tale da evidenziare che l’intervento del soggetto investigante sia il più imparziale possibile e soprattutto individui il responsabile al di là delle vicende trattate, agendo “super partes”.

Qui,  il meccanismo dell’individuazione del colpevole, si esplicita in una serie di ingranaggi collegati a vari subplots, che giustamente qualcuno ha ricollegato all’azione narrativa di Carr, vero deus ex machina del romanzo poliziesco, nell’Inghilterra degli anni ’30-’40. La deduzione classica, tipica del whodunnit, viene qui arricchita da un ragionamento di finissima psicologia, che conclude in maniera superba il romanzo, consegnando un assassino, meno ovvio di quanto parrebbe, e soprattutto estremamente vero, una figura a tutto tondo, ben diversa dagli eroi di cartone, di tanta letteratura del genere.

Per di più la ricercatezza dei rimandi poetici utilizzati in quanto tali ( alcuni versi tratti dalla Ballata scozzese Lord Randall : “O I fear you are poisoned, Lord Randal, my son! I fear you are poisoned, my handsome young man!”. “O yes, I am poisoned; mother, mak my bed soon, For I’m sick at the heart, and fain wad lie down.”; o quelli tratti da Vier ernste Gesänge, op.121 di Brahms: Denn es gehet dem Menschen wie dem Vieh, vie dies stirbt so stirbt er auch; und haben alle einerlei Odem; und der Mensch hat nichts mehr denn das Vieh: dann es ist alles eitel [1] da cui Cecil Day-Lewis alias Nicholas Blake ricavò il titolo The Beast Must Die, creando un sillogismo che nel testo originale non esiste) ovvero celati sotto altre mentite spoglie (la frase nihil subhumanum a me alieno puto da lui eletta a motto degli scrittori di gialli, ma derivata dalll’omonima frase di Terenzio, Homo sum, humani nihil a me alienum puto; l’espressione latina Favete linguis con la quale Frank dice che intitolerà il suo saggio di cultura generale,  deriva almeno dal III libro di Amores di Ovidio: Sed iam pompa venit — linguis animisque favete! , espressione simbolo dell’Humanitas del circolo degli Scipioni e poi del Rinascimento, stanno ad indicare, anche quando non ce ne fosse bisogno, quale fosse la cultura di cui era espressione l’autore, quando ancora non si conoscesse il vero nominativo di origine. Del resto, altrettanti riferimenti culturali, quando non inseriti allo scopo di indicare lo snobismo del protagonista, es Philo Vance di Van Dine, ci ricordano romanzi di altri scrittori, che hanno studiato o insegnato a Oxford (per esempio quelli di Edmund Crispin o di Michael Innes).

 

 

Pietro De Palma

 




[1] Poiché uomini e bestie hanno identica sorte; così come queste muoiono, anche lui muore; tutti hanno un identico respiro e in nulla l’uomo differisce dalla bestia: poiché tutto è vanità (Ecclesiaste: 3,19-22)

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